“La specie umana” di Antelme, le isole di umanità nella barbarie

L’antinazista e oppositore politico – non ebreo – racconta lo stravolgimento della civiltà sociale determinata dal totalitarismo e la degradazione degli individui

Fra i grandi libri nati dalla Shoah, quello che resta dentro di me come una presenza fondamentale è La specie umana di Robert Antelme, che uscì nel 1947 e venne tradotto in italiano sette anni dopo da Ginetta Vittorini per Einaudi nei mitici Gettoni. Oggi lo si può trovare in varie edizioni anche economiche. Ad ogni rilettura conferma potenza e solennità ritagliandosi uno spazio tutto suo fra la visione lucida e febbrile di Primo Levi, la cronaca allucinata e quasi insostenibile di Tadeusz Borowski, la denuncia ossessiva di David Rousset, la dimensione epica di Jorge Semprun e lo sguardo straziato di Ruth Kluger, per citare alcuni dei massimi autori concentrazionari.

Antelme (1919-1990), che ebbe un rapporto coniugale lungo sebbene tormentato con Marguerite Duras – la quale rievocò il ritorno del marito dal lager in un altro celebre memoir, Il dolore (1985) – venne deportato nel 1944 ma, non essendo ebreo, scampò alla camera a gas. Era un antinazista e oppositore politico: come tale conobbe la reclusione e il lavoro coatto a Gandersheim in un campo adiacente a Buchenwald. Il suo testo non racconta i meccanismi dello sterminio, bensì lo stravolgimento della civiltà sociale determinata dal totalitarismo. Gli individui andavano incontro a una degradazione animalesca: quando uno mostrò ai compagni di sventura il frammento dello specchio recuperato tra i detriti, ognuno se lo passò davanti al viso ritrovando qualcosa di se stesso che aveva smarrito. La pagina in cui tutti vogliono guardarsi per tornare a sentirsi parte del consorzio umano meriterebbe una speciale riflessione: «Purtroppo bisognava staccarsi dallo specchio, passarlo a un altro che aspettava avido. Si faceva la coda per quel frammento di solitudine. E mentre lo si aveva in mano, gli altri non smettevano di sollecitarti».

Eppure ciò che resta nella memoria sono le isole di residua umanità ancora presenti nella barbarie, come la donna che furtivamente regala al deportato un pezzo di pane bianco o l’operaio renano, anch’egli impietosito, il quale prima consiglia al protagonista di non affannarsi nel lavoro in officina, poi addirittura di nascosto trova il modo di stringergli la mano per testimoniare la sua solidarietà, mostrando il coraggio dell’uomo giusto perché se le guardie lo avessero scoperto lui sarebbe passato immediatamente dall’altra parte della barricata. Pochi anni dopo ecco come Antelme commenta il gesto temerario: «L’abbaiare di migliaia di SS e così tutto l’apparato dei forni, dei cani, del filo spinato e la fame e i pidocchi, non possono nulla contro quella stretta di mano».

Alcuni scorci conservano una forza ineguagliabile: la descrizione della zuppa bollente con gli sventurati che, incolonnati e frementi, cercano di farla durare il più a lungo possibile è davvero unica. E come dimenticare gli ultimi momenti, quando arrivano dei pacchi di cibo della Croce Rossa e i gruppi di francesi li divorano prima che altri deportati, ugualmente affamati, possano sottrarglieli? Bisognava resistere, oltre che fisicamente, per riaffermare un principio di giustizia: «Ogni morte è una vittoria delle SS». Nella scena finale lo scrittore conferma questa interpretazione simbolica. I carnefici se ne sono appena andati. Lui scambia qualche battuta in tedesco con un giovane russo. Anche la lingua del nemico veniva così liberata dalla servitù a cui l’aveva costretta il nazismo.

27 gennaio 2020